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Granaiolo

Il piccolo centro turrito che Leonardo rappresenta nella mappa RL 12278 di Windsor sulla destra del fiume Elsa, fra Cambiano e Monterappoli, è indicato con il toponimo ben leggibile “granaiolo”. Si tratta dell’antico castello di Granaiolo, come doveva poterlo osservare Leonardo all’inizio del Cinquecento. Le strutture del castello non sono conservate, tuttavia il sito doveva corrispondere al luogo dove sorge oggi il complesso edilizio della fattoria di villa Pucci di Granaiolo, nel comune di Castelfiorentino, attualmente in uso come azienda agricola.

La più antica attestazione del toponimo risale alla seconda metà del XII secolo quando “Granaiolum” compare fra i possessi concessi dall’imperatore Federico I ai conti Guidi. Nel corso del XII secolo, infatti, questa famiglia comitale aveva incrementato la sua presenza sia nella bassa Valdelsa, dove aveva intrapreso la fondazione del nuovo castello di Empoli, sia nell’alta Valdelsa, con la rifondazione di Poggibonsi. Fra l’Arno e l’Elsa i Guidi controllavano l’importante castello di Empoli e i castelli di Granaiolo e Monterappoli. La posizione di Granaiolo e la documentata presenza di una fondazione canonicale nelle sue immediate adiacenze (San Matteo a Granaiolo) ne ha messo in evidenza la funzione di centro strategico del sistema di strade della Francigena. Granaiolo e la canonica di San Matteo avrebbero costituito una delle tappe del percorso che si sviluppò sul fondovalle dell’Elsa nel corso del XII secolo. In alternativa al percorso tradizionale, una volta superato Poggibonsi, il nuovo percorso avrebbe proseguito sulla riva destra dell’Elsa toccando Certaldo, Castelfiorentino, Granaiolo, Monterappoli e Torrebenni per poi avviarsi al passo dell’Arno.
Nel corso del Duecento questo piccolo centro valdelsano seguirà le vicende che videro la città di Firenze muoversi nella costruzione del suo comitatus. Granaiolo si trovava, infatti, sul confine fra i territori della città di Firenze e di San Miniato, castello imperiale allora in forte ascesa. Nel 1297 Firenze intese ridefinire questa linea di confine che sostanzialmente coincideva con il fiume Elsa. La prescrizione fiorentina, nella forma della missiva inviata a tutte le comunità interessate, rammenta anche Granaiolo fra i comuni rurali che dovevano occuparsi in modo specifico della difesa del confine sull’Elsa. Sono elencati, assieme al comune di Granaiolo, le comunità di Empoli, Borgo Santa Fiora, Monterappoli, Castelfiorentino, Catignano, Gambassi, Montignoso e Certaldo. La particolare posizione strategica di Granaiolo appare evidente nel primo documento che ci parla di questo luogo come di un castello. Nel 1312, infatti, il castello di Granaiolo viene rivendicato da Enrico VII come appartenente all’Impero. Nel momento in cui Enrico VII, giunto in Italia, si era fermato a Pisa il confine dell’Elsa divenne l’avamposto guelfo all’estremità occidentale del territorio controllato da Firenze.
Nella seconda metà del Trecento i provvedimenti avviati dalla repubblica fiorentina in ordine alle necessità di difesa del suo territorio forniscono qualche informazione sull’aspetto materiale di questo piccolo comune rurale. Risulta infatti che fra il 1366 e il 1370 gli uomini del popolo di San Matteo a Granaiolo godettero di esenzioni fiscali per l’impegno nelle opere di fortificazione o rifortificazione di Granaiolo. Non sappiamo se si sia trattato della costruzione di difese che non esistevano per niente oppure di un rinnovamento. In ogni caso nel 1376 l’ennesimo provvedimento di Firenze si riferisce alla “villa sive castro Granaiuoli”: entro la fine del secolo XIV, dunque, Granaiolo doveva avere l’aspetto di un piccolo villaggio murato. Il medesimo documento del 1376 fornisce interessanti informazioni sull’aspetto materiale del castello: si parla della vendita al miglior offerente di alcune case ed altri edifici che erano stati realizzati non in muratura ma con pareti in terra pressata (“de terra ad arcas”). Si tratta evidentemente della tecnica edilizia nota con il termine “pisè”, in uso fino all’età moderna in tutto il Valdarno inferiore, che prevedeva la realizzazione di pareti di terra pressata modellata tramite casseforme (“arcas”). La provvisione fiorentina del 1376 specificava che gli edifici realizzati con questa tecnica avrebbero richiesto continue spese per la manutenzione rendendo piuttosto evidente il motivo della scelta di svendere quegli immobili. Queste informazioni sull’aspetto materiale degli edifici di Granaiolo suggeriscono come ipotesi l’estrema facilità con cui parti del castello, così difficilmente conservabili, possano aver subito un rapido deterioramento nel momento in cui è stato definitivamente abbandonato oppure trasformato. Tuttavia nel Quattrocento il castello era ancora in piedi: le dichiarazioni riportate nel catasto fiorentino del 1427 parlano di diversi edifici posti all’interno del castello ancora circondato dal “muro chastellano”. All’interno del castello si potevano trovare anche complessi edilizi piuttosto articolati come il “podere chon chasa e uno casolare e parte di una torre”. Si intuisce anche l’esistenza di una certa organizzazione degli spazi interni. Doveva esistere un piccolo sistema viario interno: una strada era chiamata “via Salimegro”. Una parte del castello era chiamata “Borghetto”. Quello che viene chiamato “Borgho Vecchio”, invece, doveva trovarsi all’esterno delle mura castellane. Qui si trovava la chiesa di Santa Maria, attestata nelle fonti scritte dalla fine del Duecento. La piccola chiesa del borgo di Granaiolo rimane se non nelle strutture nel nome della cappella annessa alla villa Pucci, che porta ancora il titolo di Santa Maria al Borgovecchio. La chiesa parrocchiale di Granaiolo però era San Matteo, che si trovava a valle del castello, in prossimità del fiume Elsa. Il priore, carica legata alla gestione del complesso di strutture della Canonica di San Matteo, abitava nel castello come segnalato in una dichiarazione del 1427: “casa nella quale habita il priore”.
Il complesso della villa Pucci di Granaiolo venne realizzato dalla famiglia fiorentina fra il Seicento e il Settecento. Sappiamo tuttavia che i Pucci disponevano di diverse possessioni in questa zona già verso la metà del Quattrocento. È possibile che debba attribuirsi a loro la realizzazione del ciborio in pietra datato 1457 che fa parte di un riallestimento della cappella annessa alla villa, Santa Maria al Borgovecchio. Il dato toponomastico farebbe pensare che l’area occupata oggi della villa Pucci possa corrispondere al Borgo Vecchio citato nelle fonti scritte, cioè lo spazio esterno alle mura del castello. Delle strutture del castello di Granaiolo così come venne disegnato da Leonardo all’inizio del Cinquecento non sono rimaste tracce materiali, tuttavia è probabile che il piccolo centro murato e turrito occupasse il pianoro su cui si trova oggi la fattoria Pucci. La canonica di San Matteo, che funzionava da chiesa parrocchiale di Granaiolo, era localizzata a qualche centinaio di metri dal castello, più a valle, nei pressi del fiume Elsa. Doveva funzionare anche come luogo di sosta trovandosi in corrispondenza del percorso di fondovalle della via Francigena, percorso sviluppatosi sulla destra dell’Elsa nel corso del secolo XIII. La prima menzione della Canonica S. Mathei de Granaiolo è del 1260 e già nel corso del Trecento non versava in buone condizioni. Fu certamente trasformata in più occasioni dalle diverse famiglie fiorentine che vi si avvicendarono nel patronato (i Frescobaldi fino al 1486, poi i Corsini ed infine, nel 1562, i Pucci). Ai Pucci si deve l’iniziativa di fusione di tre campane mentre nel 1717 fu completato il restauro della chiesa che a quel tempo era “indecentissima”. Attualmente la chiesa di San Matteo è riconoscibile all’interno di un fabbricato rurale posto nelle vicinanze della villa Pucci, in località San Matteo. Percorrendo la strada campestre interna alla via Niccoli si può riconoscere l’abside della canonica di San Matteo, in muratura di laterizi. La piccola aula rettangolare risulta però quasi illeggibile, coperta su quasi tutti i lati dai fabbricati del complesso edilizio moderno.
A cura di
Silvia Leporatti
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